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Pane & Olio

Pania della Croce

Sono solo, quando arrivo al Piglionico, alla cappella, c'è già qualche macchina, qualcuno vi ha addirittura dormito e disposto con cura un triangolo davanti al sacco a pelo, temeva le auto. Faccio piano per non disturbare, nel silenzio si sente solo il rumore delle suole sulla breccia della strada, è un rumore discreto, è un rumore che mi piace, segna la fine del viaggio e l'inizio dell'avventura.

M'avvio per il sentiero n. 7 ed entro nel bosco: la solitudine mi fa compagnia, gli alberi simili a vecchi incanutiti mostrano ciocche di foglie gialle, qualche nube nasconde i fondovalle così che isola questo piccolo mondo aiutando i miei sensi a concentrarsi solo su ciò che si riesce a vedere, la luce diffusa mi aiuta a notare tutti i particolari e qualche chiazza di sole da rilievo qua e là a piccole zone svelandomi ogni loro segreto. Sul sentiero i miei piedi calpestano le prime foglie sparse, a lato un albero ferito e mutilato da anni sopravvive testardamente, mi ricorda le mie ferite: - siamo ancora in piedi - mi dice fiero, come se gli altri evitando simili sofferenze si fossero persi qualcosa.

Esco dal bosco sudato ma una brezza sostenuta conferma giusta la mia scelta di vestire pesante, sono sui prati e finalmente al rifugio, do un'occhiata alla Pania Secca cui fa da sfondo una coltre di nubi e di nebbie. Giochi di fumo con riflessi dorati salgono dal mare e si rincorrono salendo i suoi dirupi; la cresta Nord si staglia nitida sulla cortina di nubi, da molto tempo aspetta una mia ripetizione.

Ancora nebbie mi avvolgono all'ingresso della Valle dell'Inferno, le rocce sembrano fumare, vado oltre, faticosamente raggiungo la cresta Est e mi riposo. Nel silenzio riesco a sentire i tonfi del mio cuore mentre il vento sembra una sinfonia nelle mie orecchie. Chiudo gli occhi ed ascolto il mio respiro, dico quello che mi passa per la mente, lo sussurro e già in questa pace mi sembra di urlare.

La cresta è larga, facile, poi si restringe e si protende verso il cielo, si perde nella nebbia, un salto roccioso poi un altro, scelgo con cura gli appigli. Ci sono tre spuntoni erti ed esposti da affrontare: il primo deve essere stato colpito da un fulmine, è diventato un mucchio di rocce smosse e pericolanti, lo aggiro sulla destra, supero gli altri due, le ultime roccette e sono in vetta.

La Pania ha un significato diverso ogni volta che la raggiungo, è come un amante: a volte è consuetudine od un ripiego e ti manca qualcosa, a volte un rifugio in cui scaldi il cuore, altre volte è una conquista e la vivi con passione.

Gitanti vocianti interrompono le mie riflessioni, mi tuffo nella discesa allontanandomi e, piano piano, ritrovo la quiete, scopro il paesaggio a poco a poco e tutto ciò che credevo familiare mi stupisce e mi affascina. E' proprio in questi silenzi e tra queste nebbie che devono essere nate le leggende dei folletti.

Lascio il sentiero e raggiungo una distesa di rocce lavorate dal tempo e dalle intemperie, l'acqua scorrendo su di esse ha corroso il carbonato di calcio che le forma, mostrano le loro rughe e, come noi, sono tutte diverse e pur tutte uguali.

Il vento scorre su dalla valle e mi racconta di gente che si affanna, di autisti impazienti pronti a scattare al semaforo o dopo una curva per un sorpasso, tra poco ci sarò anch'io.

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